Domenica 17 aprile siamo chiamati alle urne per ri-discutere di una legge con un contenuto abbastanza tecnico: si dovrà decidere se i permessi per estrarre idrocarburi in mare, entro 12 miglia dalla costa, cioè più o meno a 20 chilometri da terra, debbano durare fino all’esaurimento del giacimento, come avviene attualmente, oppure fino al termine della concessione.
IL REFERENDUM É ABROGATIVO!!! VOTANDO SÌ SI VUOLE CHE LA LEGGE VENGA ABROGATA, E CHE LE TRIVELLE IN MARE DISMETTANO AL TERMINE DELLA CONCESSIONE LEGISLATIVA DEL GIACIMENTO. VOTANDO NO O ASTENENDOSI SI VUOLE CHE I GIACIMENTI DI ESTRAZIONE RESTINO IN ATTIVITÀ FINO ALLA ESTINZIONE DEL POZZO STESSO.
Secondo il ministero dello Sviluppo economico, al momento nei mari italiani ci sono 135 piattaforme e teste di pozzo . Di queste, 92 ricadono dentro le 12 miglia : sono quelle a rischio con il referendum, quindi la maggioranza. Per sapere quando, in caso di vittoria dei sì, verranno smantellate le piattaforme, bisogna capire come funzionano le concessioni. Questi permessi rilasciati dallo Stato alle compagnie hanno una durata iniziale di trent’anni, prorogabile la prima volta per dieci, la seconda per cinque e la terza per altri cinque. La prima chiusura di una trivella entro le 12 miglia avverrebbe tra due anni, per l’ultima bisognerebbe aspettare fino al 2034.
Possiamo riassumere i motivi dati dai sostenitori del sì in 3 punti:
1. gravi danni alla fauna del mare: nell’individuazione dei pozzi petroliferi viene usato un meccanismo di “air gun”, un sistema di monitoraggio ad onde che altera il senso cognitivo dei pesci stessi.
2. ci guadagnano solo i petrolieri: ogni stato per l’estrazione di idrocarburi nel suo spazio territoriale percepisce delle royalties dalle compagnie petroliere, e il livello percentuale italiano di guadagno sull’estrazione di idrocarburo è tra i più bassi d’Europa (7%).
Per dare i numeri del fenomeno la tassazione complessiva a cui sono sottoposte in Italia le società petrolifere è pari in media al 63,9 per cento , un livello «relativamente alto» nel confronto tra i Paesi Ocse. Rispetto alle aziende di altri settori, quelle che estraggono idrocarburi pagano in più le royalties, imposte applicate sul valore di vendita del gas o del petrolio estratto. Succede quasi in tutto il mondo. In Italia le royalties per chi trivella in mare sono però piuttosto basse: il 7 per cento per il gas e il 4 per il petrolio. Nel 2015 tutte le estrazioni, sia su mare che in terra, hanno prodotto un gettito da royalties pari a 352 milioni . La quota delle piattaforme entro le 12 miglia, dice il ministero dello Sviluppo, è stata di circa 38 milioni: la perdita per le casse pubbliche non sarebbe dunque rilevante.
3. alla luce di quanto detto sopra, il gioco non vale la candela: per soli 38 milioni si rischia un incidente marino con relativo disastro ambientale.
I sostenitori del NO dal canto loro affermano che:
1.
Nella storia italiana si ricorda un solo grande incidente: avvenuto nel 1965 al largo di Ravenna, quando la piattaforma Paguro, di proprietà dell’Eni, in fase di installazione saltò in aria causando la morte di tre persone. Non ci furono gravi danni ambientali, visto che il giacimento era di gas. Piccoli sversamenti di petrolio, tuttavia, avvengono spesso dove ci sono attività di estrazione. Lo dice un rapporto del Parlamento europeo , secondo cui solo tra il 1994 e il 2000 nel Mediterraneo (dati specifici sull’Italia non vengono forniti) ci sono stati 9.000 episodi di questo genere rilevati dai satelliti.
2. Abolire il rinnovo automatico delle trivellazioni fino al termine del giacimento esporrebbe l’Italia al rischio di una crisi petrolifera globale o alle “oscillazioni” del greggio dei paesi produttori. A vedere le cifre, dai pozzi situati entro le 12 miglia si estrae soprattutto metano. Secondo i dati forniti a “l’Espresso” dal ministero dello Sviluppo economico, nel 2015 queste piattaforme hanno contribuito al 28,1 per cento della produzione nazionale di gas e al 10 per cento di quella petrolifera. Le trivelle entro le 12 miglia nel 2015 hanno contribuito a soddisfare fra il 3 e il 4 per cento dei consumi di gas e l’1 per cento di quelli di petrolio. Fermando progressivamente queste produzioni, l’Italia dovrebbe quindi aumentare le importazioni da altri Stati, alcuni dei quali – come Egitto e Libia – perforano nello stesso Mediterraneo.
3. La perdita di posti di lavoro: Un dato preciso sugli occupati nelle piattaforme offshore entro le 12 miglia, però, non lo forniscono né i sindacati né l’Assomineraria (ndr. associazione delle Compagnie petrolifere impegnate nell’estrazione di idrocarburi in mare). Quest’ultima dice che in totale l’attività estrattiva in Italia dà lavoro a 10 mila persone, fra diretti e indiretti, che diventano 29 mila se si aggiungono gli addetti dell’indotto esterno al settore. Controverso resta il numero di posti di lavoro che andrebbero persi, in quanto le trivelle non smetterebbero di funzionare in caso di vittoria del sì (e relativo raggiungimento del quorum) visto che le ultime concezione scadranno nel 2034.
Un ultimo appunto… Nel confronto europeo, l’Italia è uno dei Paesi che ha spinto di più sullo sviluppo delle rinnovabili. Secondo il Gestore dei servizi energetici (Gse) , nel 2015 le cosiddette fonti alternative hanno contribuito a soddisfare il 17,3 per cento dei consumi nazionali di energia. Il dato è in costante aumento, se si pensa che nel 2004 la quota rinnovabile era del 6,3 per cento . L’Italia ha dunque raggiunto in anticipo l’obiettivo fissato dall’Unione europea, che chiede al nostro Paese di arrivare al 2020 con il 17 per cento di energia prodotta da fonti rinnovabili.